La donna della domenica – Fruttero & Lucentini – Mondadori

recensione a cura di Massimiliano Mascalzi

La donna della domenica. Torino, anni Settanta. Nel suo pied-à-terre viene ucciso l’architetto Garrone. Squallido personaggio che vive di espedienti ai margini della Torino bene, Garrone fa parte di una sorta di “teatrino privato” nel quale Anna Carla Dosio, la moglie di un ricco industriale, e Massimo Campi, giovane omosessuale della buona borghesia, stigmatizzano vizi, affettazioni e cattivo gusto dei loro conoscenti. Il commissario Santamaria si trova così a indagare tra l’ipocrisia, le comiche velleità e gli esilaranti chiacchiericci che animano il mondo della borghesia piemontese, tra professionisti dalla doppia vita, dame dell’alta società affascinanti e snob, e industriali. Sullo sfondo – ma è in realtà la vera protagonista – vi è una Torino in apparenza ordinata e precisa fino alla noia, che nasconde un cuore folle e malefico: «La leggendaria monotonia della città era un’invenzione di osservatori superficiali. Torino era una città per intenditori» commentano gli autori (che sull’argomento la sanno lunga).

RECENSIONE

Padri del giallo italiano potrà sembrare eccessivo tuttavia La donna della domenica è romanzo seminale se ce n’è uno.
Ovvio che il giallo nel nostro paese esisteva da ben prima dell’avvento di Fruttero e Lucentini, altrettanto evidente che dopo di loro il genere non fu più lo stesso.
Perdurava in quegli anni una convinzione forse non scritta ma difficile da scalfire, un mistery non poteva essere ambientato in un contesto italiano (così come anche la fantascienza) e a tal riguardo gli stessi due scrittori avevano coniato anni prima una frase significativa “un disco volante non può atterrare a Lucca”. La donna della domenica rovescia totalmente il concetto, si tratta di un giallo a tutti gli effetti, con peraltro un finale imprevedibile, e non soltanto si svolge a Torino ma il capoluogo piemontese è assoluto protagonista, nel bene e nel male.
Sbaglierebbe infatti chi pensasse ad una Torino incantevole, luminosa, ricca di fascino, Fruttero e Lucentini tratteggiano una Torino senza sconti:
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” Attraversò via Po, raggiunse i dolenti portici della prefettura, colore sangue raggrumato, e poi la compatta distesa d’auto parcheggiate davanti alla compatta facciata del Palazzo Reale.
Una doppia immagine di ordinaria noia, come se – aveva osservato una volta lo zio Emanuele – la dinastia dei Savoia, costruendo le sue piazze geometriche e i suoi viali ripetitivi, avesse intuito la dinastia degli Agnelli e presagito, con la tipica clairvoyance dei poveri di spirito, la continuità delle catene di montaggio Fiat: 
la grande tradizione del prevedibile.”

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In questo contesto si muovono i personaggi, il losco trafficone Garrone che viene ucciso dando il via alla storia, la colta e ironica Anna Carla Dosio esponente dell’alta borghesia torinese così come il giovane omosessuale Massimo Campi, e naturalmente il commissario Santamaria che si trova ad indagare sul delitto partendo proprio da una lettera scritta da Anna Carla a Massimo in cui la donna sollecita in pratica l’eliminazione del Garrone, lettera che di fatto pone i due nella scomoda posizione di massimi indiziati.

E la penna dei due autori, seppure in un tappeto narrativo che non disdegna parentesi umoristiche (si pensi all’esilarante, già nella definizione, americanista Bonetto), colpisce la classe borghese in modo per certi versi atipico. La lotta di classe non è tanto borghesia contro proletariato, semmai il confronto è tra diverse maniere di rappresentare la borghesia.
Anna Carla e Massimo, con il loro messaggiare cartaceo che un po’ potrà sembrare antesignano dei moderni social, affondano il colpo, con ironia ed eleganza, sulla classe sociale di cui loro stessi, consapevolmente, fanno parte.

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Ed ecco la presa in giro della pronuncia di Boston, il viaggiare in tram perché la macchina di grossa cilindrata è ostentazione ma muoversi con un’utilitaria provocherebbe imbarazzo, il tenere a distanza la ricchezza se mostrata in modo volgare.
Anna Carla e Massimo, due esponenti dell’allora nascente radical chic mi verrebbe da dire, e in questo, certamente, assai meno consapevoli.
In contrapposizione ai due, ma ovviamente complementari, il commissario Santamaria e l’amante di Massimo, Lello.
Entrambi in qualche misura affascinati dal mondo che Anna Carla e Massimo rappresentano, percependone la distanza (il primo perché meridionale, il secondo in quanto mediocre impiegato) provano ad entrarci in punta di piedi, verranno accolti ma non ne comprenderanno mai la leggerezza né tantomeno la volubilità.
E ne pagheranno le conseguenze sebbene in modo ben diverso.
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Romanzo da almeno quattro stelle per meriti socioculturali, viene sdoganato un genere letterario e passata al microscopio una classe sociale.
Tanta roba anche in anni culturalmente vividi come i primi 70.
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Dal romanzo vennero tratti due film, il primo praticamente a ridosso del libro ed interpretato da un Mastroianni-Santamaria romano anziché siciliano eppure credibile (ma insomma era Mastroianni); accanto a lui una Jaqueline Bisset di un fascino e un’eleganza oltraggiosi.
Quasi quarant’anni dopo si pensò bene di produrre un remake in salsa fiction con Giampaolo Morelli che più che Santamaria sembra il padre dell’ispettore Coliandro e Andrea Osvart, attrice che se ipoteticamente si potesse organizzare un torneo per stabilire la peggiore interprete femminile mai apparsa sullo schermo figurerebbe tra le teste di serie.
Opera modesta che lascerei alla sua modestia.
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