Le ossa parlano – Antonio Manzini

Le ossa parlano – Antonio Manzini Sellerio

recensione  a cura di Massimiliano Mascalzi

Le ossa parlano. Un medico in pensione scopre nel bosco delle ossa umane. È il cadavere di un bambino. Michela Gambino della scientifica di Aosta, nel privato tanto fantasiosamente paranoica da far sentire Rocco Schiavone spesso e volentieri in un reparto psichiatrico, ma straordinariamente competente, riesce a determinare i principali dettagli: circa dieci anni, morte per strangolamento, probabile violenza. L’esame dei reperti, un’indagine complessa e piena di ostacoli, permette infine di arrivare a un nome e a una data: Mirko, scomparso sei anni prima. La madre, una donna sola, non si era mai rassegnata. L’ultima volta era stato visto seduto su un muretto, vicino alla scuola dopo le lezioni, in attesa apparentemente di qualcuno. Un cold case per il vicequestore Schiavone, che lo prende non come la solita rottura di decimo livello, ma con dolente compassione, e con il disgusto di dover avere a che fare con i codici segreti di un mondo disumano. Un’indagine che lo costringe alla logica, a un procedere sistematico, a decifrare messaggi e indizi provenienti da ambienti sotterra-nei. E a collaborare strettamente con i colleghi e i sottoposti, dei quali conosce sempre più da vicino le vite private: gli amori spericolati di Antonio, il naufragio di Italo, le recenti sistemazioni senti-mentali di Casella e di Deruta, persino l’inattesa sensibilità di D’Intino, le fissazioni in fondo comiche dei due del laboratorio. Lo circondano gli echi del passato di cui il fantasma di Marina, la moglie uccisa, è il palpitante commento. Si accorge sempre più di essere inadeguato ad altri amori. È come se la solitudine stesse diventando l’esigente compagna di cui non si può fare a meno. Questa è l’indagine forse più crudele di Rocco Schiavone. La solitudine del bambino vittima è totale, perenne, metafisica, e aleggia sulle affaccendate vicende di tutti quanti i personaggi facendoli sentire del tutto futili a Rocco, confermandolo nel suo radicato pessimismo.

RECENSIONE

Undicesimo romanzo della serie di Rocco Schiavone, Le ossa parlano, che uno poi giustamente si domanderà:
Ma undici romanzi non saranno troppi?
Beh in effetti, un pochetto (per dirla alla romana).
Che poi io non li ho nemmeno letti tutti e undici, per carità Manzini è un simpaticone, alle presentazioni dei libri due risate con lui sono garantite, e Giallini come attore lo apprezzo tantissimo (per entrare in ambito fiction), ma undici romanzi con lo stesso personaggio alla fine ti stancano.
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In questo Le ossa parlano (titolo che fa tanto Kathy Reichs, con lei Le ossa non mentono, qui addirittura parlano e insomma l’evoluzione mi sembra evidente) ad un certo punto viene persino riproposta l’annosa contrapposizione sticazzi-me cojoni che ormai credo abbiano recepito pure in Val Venosta.
Poi, se davvero vogliamo parlare in tutta franchezza, la parte più affascinante delle storie di Schiavone è sempre stata quella relativa alle sue vicende private ma stavolta è proprio il privato a latitare.
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Andiamo con ordine, Rocco si trova alle prese con un cold case, un bambino scomparso sei anni prima e le cui ossa vengono ritrovate in un bosco.
Per il resto rimando alla sinossi, l’argomento è la pedofilia inutile girarci intorno e per quanto Manzini usi tutta la leggerezza del mondo certe crudeltà io faccio fatica anche ad accennarle.
Quindi romanzo non consigliatissimo per quel che concerne la parte investigativa, resta la sfera privata ma come detto è impalpabile.
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In ogni caso, almeno qui, vado un po’ giù di spoiler bello pesante (quando ce vo’ ce vo’):
avevamo lasciato Rocco psicologicamente tumefatto per le rivelazioni ricevute sul suo amico d’infanzia Sebastiano e sinceramente mi aspettavo ulteriori sviluppi che invece vengono elargiti col contagocce.
Pare, si dice, si mormora, che Seba sia scappato in Argentina e Furio (altro amico fraterno dei due) decide di andarlo a cercare sebbene sconsigliato da Rocco e Brizio (ultimo membro del quartetto).
Fine degli sviluppi.
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E allora no, non ci sto (per dirla un po’ alla Scalfaro dei tempi eroici).
A Manzí! (Ormai è subentrata una certa confidenza)
Mi hai fidelizzato come nemmeno Esselunga, si forse non li ho letti tutti ma ho recuperato con la fiction, mi sono esposto economicamente per te, che poi, la butto lì, ‘sti Sellerio a 15 euro mi sembrano una mezza estorsione (ecco l’ho detto), sugli scaffali delle librerie si mimetizzano con l’ambiente, roba che se inviti a casa una donzella con la classica scusa “ti faccio vedere la mia collezione di Camilleri” rischi che dopo una decina di minuti di paziente perlustrazione ti chieda “ma ‘ndó stanno?”.
E mi fai arrivare alla fine del romanzo che stiamo ancora a carissimo amico?
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Di Sebastiano non c’è traccia, quell’altro lo va a cercare in Argentina e non si capisce se poi qualcuno dovrà andare a cercare pure lui sulla Pampa.
Deruta da quando ha fatto coming out lo troviamo più in panetteria che al commissariato, Italo è diventato biscazziere, Caterina è tornata non sa manco lei perché, Sandra si atteggia a giornalista d’assalto con Rocco che le dà le notizie in anteprima (così diventavo inviato di Aostasera pure io), D’Intino da quando ha sparato per sbaglio a Schiavone deve girare con la pistola scarica (e un agente che gira con la pistola scarica non s’è mai sentito), Gambino e Fumagalli ormai convivono e questa è la notizia in fondo più rassicurante.
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Insomma tutti hanno trovato, più o meno, un minimo di dimensione, tranne Rocco che ancora parla con Marina e si capisce, è palpabile, che lei è lì lì per dirgli “lasciame sciolta” (francesismo), ormai Rocco per Marina sta diventando una rottura di cog….. minimo minimo del settimo livello, perfino l’attrice della serie è cambiata, pure la Ragonese s’era stancata di dialogare con Schiavone.
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Sinceramente?
Io la chiuderei qui, giusto un appendice a mo’ di racconto per capire che cappero (eufemismo) di fine ha fatto Sebastiano (e pure Furio, a ‘ sto punto mi prendo tutto il pacchetto), con chi lavora Caterina, e se a D’Intino è stata assegnata almeno una pistola a spruzzo.
Oltre non andrei, persino De Giovanni a dodici s’era fermato anche se dopo ci ha ripensato e ha partorito Caminito (che pure lì non è che se ne sentisse tutto ‘sto gran bisogno).
Manzini se, come gli auguro perché poi ha già dimostrato di poter svariare su altri fronti, dovesse metterci un punto non ci ripenserebbe (a Roma chi ci ripensa non ha una buona nomea) e mal che vada potrebbe creare l’associazione Lasciamo libera Marina.
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