Diamo il benvenuto nel nostro salottino  a Stefania Sperandio autrice di Aftermath, la cui recensione è stata pubblicata nei giorni scorsi sul nostro blog.

1. Ciao Stefania vuoi parlare un po’ di te ai nostri lettori affinché possano conoscerti
meglio?

È sempre la domanda più difficile di tutte! Sono cresciuta in mezzo ai libri, quando ero
bambina non so come riuscivo sempre a convincere mia madre a comprarmene di nuovi,
e alla fine ho iniziato a scrivere le mie storie. Nella vita di tutti i giorni sono caporedattrice e
responsabile editoriale di una testata giornalistica dedicata ai videogiochi, ma nel tempo
libero porto avanti il mio amore per la narrativa: è la mia isola felice, quella che mi rimette
in pace con il mondo.

2. Aftermath e’ il sequel di Corpo estraneo di cui e’ il capitolo conclusivo. Come e’;
nata l’idea di scrivere una storia divisa in due capitoli?

Ti rivelo una curiosità: non era previsto! Quando scrissi Corpo Estraneo, avevo bisogno di
una storia che potesse dare senso ad alcuni pensieri, dopo degli eventi nella mia vita che
mi avevano portata a sentirmi improvvisamente… un corpo estraneo. Da qui l’idea del libro
e del suo tema.
Col passare del tempo, iniziai a immaginare di scrivere una trilogia per la vicenda di
Manuela Guerra. Alla fine, invece, decisi di saltare il secondo volume e di passare
direttamente a quello che idealmente doveva essere il terzo, che è Aftermath: è quello che
mi ha “chiamata” e che avevo bisogno di scrivere, in un certo senso.
Ti rivelo anche un’altra piccola curiosità: il secondo romanzo, quello che non è mai nato, in
realtà si nasconde in tanti dettagli e tanti temi ed emozioni che sono confluiti in Aftermath.
Una scena in particolare, quella in cui racconto la prima volta in cui Manuela e Anna si
sono incontrate, viene proprio da lì.

3. Manuela, Anna, Daniela, tre donne unite da profonda amicizia e affetto. Come sei
riuscita a creare tre caratteri differenti, ma molto reali? Ti sei ispirata a qualcuno?

Mi fa molto piacere che tu le abbia apprezzate nelle loro differenze. Penso che chiunque
scriva si ispiri al mondo che ha intorno, per rendere più vivo, vero e credibile quello che
crea. Quando ero più giovane, per scrivere prendevo come riferimento una persona per
ogni personaggio: questo però, in un certo senso, rendeva un po’ più difficile sfaccettare i
protagonisti. Ora, in ognuno dei protagonisti si nascondono più persone: c’è qualcosa di
me in Manuela, in Anna, in Daniela. E in ciascuna di loro c’è qualcosa delle mie più care
amiche – Martina, Marta e Jana: è pensando a loro che ho creato questi tre personaggi.

4. I personaggi maschili non ne escono molto bene, hai voluto con questo romanzo
rendere omaggio alla forza delle donne?

Non sono completamente d’accordo, sai? Ci sono diversi personaggi maschili che
commettono degli atti orrendi – basti pensare a Lucas, il sicario che ha cercato di uccidere

Manuela, non riuscendoci. Ma spesso sono grigi. E anche le protagoniste lo sono:
Manuela stessa viene introdotta nel libro in modo molto particolare.
Di solito, quando studi come si narra una storia, ti insegnano che è importante fare in
modo che il lettore si leghi subito al tuo personaggio, che deve ispirare empatia per
qualcosa che gli succede, o per il suo carisma. Nel prologo di Aftermath, invece, ti
presento Manuela dandole il ruolo di antagonista. È un’inversione che colpisce di più
quando, iniziato il capitolo 1, ci si rende conto che quella non è davvero “il cattivo” della
storia che vivrai, ma la protagonista. Volevo che fosse chiaro fin da subito che il bianco e il
nero a volte sono punti di vista, e ho cercato di applicare questo sia ai personaggi
femminili che a quelli maschili: una lettrice mi ha detto, a un certo punto, di essersi fatta
delle domande su “per chi sto facendo il tifo in questo libro?”, dopo essersi accorta che
gesti che avrebbe ritenuto ingiustificabili se affibbiati a un antagonista le suonavano molto
più comprensibili e quasi condivisibili, se compiuti dai protagonisti.
Sulla forza delle donne, invece, ti dico assolutamente sì. Quando ero bambina leggevo
tantissime storie e nel genere che mi piaceva di più – quello delle avventure dove le vite
erano sempre sul filo – trovavo pochissimi personaggi femminili. Valeva lo stesso nei film
e nei videogiochi: spesso le donne erano solo mezzi narrativi in funzione del protagonista
maschile, o un obiettivo passivo da salvare.
Con la mia scrittura voglio raccontare le storie che avrei voluto leggere, storie di donne
che lottano, cadono, sbagliano, amano, sempre secondo i loro termini, umane ma mai
arrendevoli. Scrivo per insegnare qualcosa a me stessa, i miei personaggi sono un punto
di riferimento soprattutto per me: sono la prima ad aver bisogno di queste protagoniste e a
dover imparare dalla loro forza. Spero che possano trasmetterla anche ai lettori e ad aprire
anche ai più sordi una porta che conduca a una maggior empatia nei confronti di noi
donne: in quest’epoca ne abbiamo davvero bisogno.

5. Aftermath e’; un thriller dall’;intreccio complesso, ma così ben strutturato che il
lettore e’; invogliato ad andare avanti per conoscere cosa accadrà. Come hai
impostato lo schema per la cronologia degli avvenimenti? E come sei riuscita ad
incastrare tutto senza che ci siano buchi nella trama?

Grazie di cuore! Il segreto è prendere davvero tanti appunti. E fare un sacco di cose
strane – ma in fondo in fondo, quando siamo da soli siamo tutti un po’ strani, no?
Io, ad esempio, per Aftermath ho almeno una quarantina di pagine di appunti. Sono in
maggior parte scalette, elenchi puntati di cosa doveva succedere. A volte anche solo
emozioni, dove appunto che tipo di “colore” dovesse avere il colpo di scena, senza aver
ancora capito a che fatti veri e propri sarebbe andato a corrispondere.
E ho un bel po’ di appunti sui personaggi, per evitare di fare un macello: date di nascita,
parentele, quartiere in cui abitano.
Mi piace scrivere storie con intrecci che si sciolgono un passo alla volta, ma non riesco a
decidere tutto su due piedi. In un’intervista, Alice Sebold disse che «non so come faccia a
scrivere chi sa subito tutto della storia, io mi annoierei», e mi ci rivedo tanto. Appunto le

cose via via che vengono e le lascio sedimentare, faccio in modo che si allineino piano
piano. Ho ancora delle pagine di appunti in cui stavo scrivendo di getto diverse opzioni
che avrebbero potuto portare avanti la storia, e in cui alla fine cerchiavo quella che capivo
sarebbe stata l’ideale.
E, sulle cose strane che facciamo quando siamo da soli, sappi che mi è capitato più di una
volta di costruire dei dialoghi ad alta voce, per provare a capire come sarebbero suonate
quelle parole. C’è una scena con Daniela che chiacchiera in un bar con un altro
personaggio, ad esempio, che ho appuntato via via che immaginavo lo scambio a voce
alta, girando a vuoto per casa e interpretando entrambi i personaggi. Direi tutto bene! 😀
Insomma, penso che il “trucco”, se così si può dire, sia il tempo. Appuntare le idee, le
sensazioni che si vogliono dare, e darsi il tempo di capire come allineare le cose. Molte
bozze sono morte sull’altare di Aftermath, ma tutte le loro idee che invece potevano
funzionare sono rimaste e hanno reso possibile questo romanzo.

6. Nel romanzo Manuela ascolta spesso Elisa. Che ruolo ha la musica nella tua vita?

Grazie per averlo chiesto, perché la musica è un altro modo di aiutarsi a scrivere, per me.
Non ricordo una sola storia che non abbia avuto delle canzoni di riferimento che mi hanno
spinta nelle loro atmosfere, che mi hanno aiutata a caratterizzare il loro mondo.
In un momento in cui ho avuto difficoltà a capire come incastrare tutti gli eventi di
Aftermath, Spotify mi ha pescato una canzone di Elisa: era “Anche Fragile”. Un passaggio
in particolare, «senza tutta questa fretta mi ameresti davvero? Mi cercheresti davvero?»
mi ha folgorata, ho pensato che fosse molto calzante per uno dei temi che volevo
sviluppare nel libro. Io di solito ascolto un genere molto diverso da quello di Elisa, ma da
quel punto in poi si è rivelato un idillio che è continuato per tutto il romanzo (e che
continua ancora oggi, con mia grande gioia).
Già in Corpo Estraneo avevo citato Elisa con “No Hero” in una playlist nell’autoradio di
Manuela. Così ho deciso di omaggiare il fatto che la sua “Anche Fragile” mi avesse
sbloccata, mi avesse spinta a capire che atmosfera volevo in Aftermath: Elisa è diventata
una presenza costante del romanzo. Anche i nomi delle diverse parti in cui la storia è
divisa (“Non fa niente ormai”, “Anche Fragile”, “Tutte le vite”, “Qualcosa che non c’è”,
“Quelli che restano”, “A modo tuo” e “L’anima vola”) sono tutti titoli di canzoni di Elisa, in
realtà: ho immaginato fossero quelli della famosa playlist che Manuela tiene nella sua
autoradio. Quando ascoltiamo musica ci apriamo a noi stessi, è un momento senza
maschere: ho pensato che avere dei riferimenti alla musica che ascolta Manuela potesse
renderla più reale come persona, più completa. Siamo vivi anche e soprattutto nelle cose
piccole che ci caratterizzano.
Quindi sì, direi che la musica ha un ruolo fondamentale in quello che scrivo: mi aiuta a fare
i conti con le mie emozioni e, quando non le capisco, mi aiuta a farle uscire per rendermi
conto di cosa ho bisogno di raccontare.

E ha un ruolo fondamentale nella mia vita: mi calma, mi cura, un po’ come scrivere. Mi
succede con quella musica dove posso percepire il messaggio, “la vocazione” di chi l’ha
scritta. Forse anche per questo sono rimasta così colpita da Elisa, o per questo sono da
quasi vent’anni innamorata della musica dei Nightwish: se hai qualcosa da tramandare
con la tua musica, qualcosa che sia molto più di un “voglio essere ascoltato da tante
persone, quindi farò qualsiasi cosa serva per piacere al mercato”, allora mi interessa.

7. Ho letto che sei un’esperta di videogiochi. In futuro pensi di utilizzare queste tue
conoscenze in un romanzo?

So che suona curioso da dire, ma l’ho già fatto! Ho imparato tantissimo da alcune storie
che ho vissuto all’interno dei videogiochi, non ti sorprenderà che i cosiddetti “story-driven”
siano i miei preferiti: sono quelli che usano la forza dell’interazione per raccontare una
storia. Ho dedicato entrambe le mie tesi di laurea (sia triennale che magistrale) allo studio
dei videogiochi, alla forza e all’impatto che possono avere nel mondo reale: parte di
quell’impatto viene anche dalle storie che raccontano.
La citazione all’inizio di Aftermath, ad esempio, è di Hideo Kojima: è un famoso creatore di
videogiochi giapponese (Metal Gear, Death Stranding) e credo sia l’autore che ha avuto
l’influenza più forte sulla mia vita e su quello che scrivo. E anche lui crede fermamente nel
potere delle storie: quello che leggiamo, guardiamo o giochiamo può arricchirci. Volevo
fortemente che Aftermath lo facesse – e questo l’ho imparato dai videogiochi, perché
diversi di essi hanno avuto un impatto molto forte sulla mia vita e su quello che faccio.

8. Quali sono i tuoi progetti futuri? Puoi darci qualche anticipazione?

Non ho ancora piani precisi per la scrittura, sicuramente ci saranno alcune uscite che
saranno di saggistica e non di narrativa, a proposito del mio lavoro legato al mondo dei
videogiochi. E nel tempo libero finirò la ristesura di un romanzo che scrissi anni addietro,
proprio come tributo a un videogame, che renderò disponibile gratis online: lo devo alle
tante persone che lo stanno aspettando da tempo, alle quali invece ho dovuto rispondere
che mi dispiaceva, perché Aftermath mi aveva chiamata e ora aveva la priorità! Dopotutto
sono le storie che ti vengono a chiamare, per me, e non l’opposto.
E per il futuro chissà: magari scriverò per la prima volta qualcosa di completamente
diverso da questo genere (già Aftermath è molto differente dai miei libri precedenti), chi
può dirlo?

9. Ultima classica domanda: quali sono i 5 libri che porteresti con te su un’isola
deserta?

– “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson
– “Amabili resti” di Alice Sebold
– “Quel che affidiamo al vento” di Laura Imai Messina
– “Mille splendidi soli” di Khaled Hosseini
– “Il gene del talento” di Hideo Kojima

 

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