Il velo dipinto – William Somerset Maugham – Adelphi

Il velo dipinto. “È una situazione fra le più classiche. Lei decide di tradire il marito con un uomo che giudica affascinante. La tresca funziona fino al giorno in cui i due clandestini hanno la sensazione che il marito tradito abbia scoperto tutto. È un guaio. Anche perché, messa alle strette, l’adultera confessa. Che fare? Si dovrà procedere alla separazione e al divorzio. Sconvolta e piangente, lei si reca dall’amante. Gli dice d’aver confessato: vuole separarsi e andare a vivere con lui. Grande è la sorpresa, a quel punto. Infatti, l’amante non ha intenzione di lasciare la moglie e mettersi con lei. Pensiamo tutto questo ambientato nella colonia inglese di Hong Kong alla metà degli anni Venti e affidato alla penna superprofessionale di W. Somerset Maugham. Sarebbe uno dei suoi romanzi caustici, mondani, un po’ cattivi. Ma Maugham, influenzato dalla lettura dell’episodio dantesco di Pia de’ Tolomei, pensa di aggiungervi qualcosa in più.” (Giorgio Montefoschi)

RECENSIONE

Dopo aver conosciuto la beatitudine del lettore con La diva Julia ho voluto cimentarmi con Il velo dipinto nella consapevolezza di non poter in ogni caso parlar male di William Somerset Maugham se non in presenza di un avvocato, ma uno bravo, genere The good wife.
La primissima sensazione personale, d’emblée, è che sotto il profilo della trama dura e pura nella Diva Julia ci fosse la ciccia vera mentre qui, al massimo, siamo ad una pur dignitosa fesa di tacchino.
Ma d’altronde la penna è sempre quella di Maugham ed è comunque un bell’andare.
.
Tornando alla trama devo confessare che mi è parsa nel complesso, e finale a parte, quella classica del feuilleton, c’è la madre che idolatra la figlia più bella e ignora quella più bruttina ( in realtà entrambe hanno lo stesso difetto, il naso, però evidentemente una è uscita fuori Sarah Jessica Parker e l’altra Sabrina Impacciatore altrimenti non si spiega), c’è il padre che conta come il due di briscola, e c’è appunto la figlia bella, Kitty, che viene presentata a destra e a manca alla ricerca del buon partito che però fatica a palesarsi tanto che alla fine della fiera è la sorella bruttina a trovare il fidanzato ovvero un nobile di quarta fascia.
A quel punto Kitty non ci sta e decide di sposarsi col primo che capita, purtroppo il primo che capita è Walter, un batteriologo che agli occhi di lei incarna la sensualità di una patata lessa condita il giorno avanti.
Ovvio che non possa durare e quando i due giungono ad Hong Kong, dove l’uomo deve trasferirsi per ragioni lavorative, pronti via Kitty ha già trovato, o almeno ne è quasi convinta, l’amore vero nella persona del baldo vice console Charles.
Quest’ultimo è una sorta di cornificatore seriale, che ovviamente promette a Kitty mari e monti ma nel momento in cui i due fedifraghi vengono scoperti da Walter nella più classica delle flagranze di reato si guarda bene dal chiedere il divorzio all’algida moglie Dorothy che peraltro già non ha un’ottima considerazione di Kitty intuendone probabilmente i costumi allegri.
Kitty allora è costretta, obtorto collo, ad accettare la proposta-ultimatum del marito che le chiede di seguirlo, presumibilmente con l’idea di liberarsi di lei, alla stregua di una novella Pia de’ Tolomei, in una ridente e sperduta località cinese dov’è in pieno atto una simpatica epidemia di colera.
Qui Kitty, tra visioni di morti di colera appoggiati nelle strade, suore francesi che si occupano di bambine abbandonate, e deputati in odore di alcolismo che però le aprono ulteriormente gli occhi sulla personalità riprovevole di Charles sembra alfine poter trovare il proprio posto nel mondo, almeno finché intervengono fatti nuovi, piuttosto pesanti, che scompaginano ulteriormente lo status quo.
.
Lezione che ho tratto da questa lettura:
Mai farsi fuorviare da una trama apparentemente banale, in fondo molto dipende sempre da colui che si trova a maneggiarla.
Una storia del genere se gestita da scrittori di romanzi rosa ci avrebbe condotti probabilmente in un baratro, viceversa la sapiente regia di Maugham riesce a plasmarla fino a donare al romanzo quel significato morale che, unitamente allo stile dell’autore, rappresenta un po’ il valore aggiunto.
L’esperienza in Cina permetterà a Kitty di cambiare ma il cambiamento visto nell’ottica di Maugham non è connesso ad un’inversione di tendenza sentimentale, Walter per Kitty resterà comunque inamabile tuttavia la donna riuscirà a riconoscere la propria parte di responsabilità nel fallimento del rapporto e ripartire da questo per ridisegnare, ad esempio, il legame col padre.
.
Cos’altro aggiungere, i protagonisti principali, ammettiamolo, non se ne salva praticamente uno.
Ad iniziare da Charles che sembra per tutto il romanzo voler chiedere un calcio ben assestato sui denti, o in alternativa proprio li dove, notoriamente, non è solito battere il sole.
Per non parlare di Walter che pur trovandosi apparentemente dalla parte della ragione, quella del cornificato, non si limita a giudicare ma emette pure le sentenze, e sinceramente è davvero troppo per uno che possiede più o meno il medesimo appeal dell’amministratore che viene a recapitarti il bollettino di conguaglio della gestione condominiale dell’anno precedente.
Kitty almeno si porta da casa la giustificazione di essere cosi perché l’ambiente in cui è cresciuta non poteva che donarle leggerezza e vacuità.
E forse, chissà, è proprio la consapevolezza di questa sua condizione a permetterle, unica a mio parere nel romanzo, di sollevare il velo dipinto liberandosi delle illusioni e  giungendo infine a “cogliere il vero”.
Ma sarà poi cosi?
Il finale non ne dà contezza ma mi piace pensarlo.
/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *